Qualcuno ha scritto “quando la tua faccia comincia ad assomigliare alla foto del passaporto è ora che torni a casa” o, come si direbbe in Romagna, “è ora che ti riduci a casa” e la mia faccia qualche problema comincia ad averlo.
In realtà sono ancora in buona forma, certamente migliore di quella del primo mese, ma il proseguimento verso Miami e Key West comporterebbe 600 km di superstrade piatte e trafficate, in una zona di nessun interesse per me, e probabilmente con un clima poco simpatico. Diciamo qualcosa di simile al pedalare in piena estate per una settimana sulla A14. Non avrebbe senso, per cui finisce qui, dopo 3.370 chilometri, 59 giorni di viaggio, 46 in bicicletta. Ma finisce qui anche perché c’è un limite alla capacità di immagazzinare sensazioni, emozioni, volti, discorsi; dopo un certo tempo l’esigenza è quella di elaborare e raccontare più che continuare ad accumulare, e quel tempo è arrivato.
Quando il viaggio è iniziato avevo la grande curiosità di parlare con la gente per capire come è percepita qui la crisi, che futuro vedono e come sta cambiando il paese dove si decidono i destini di buona parte del mondo. Ho parlato con decine di persone, di tutte le condizioni sociali ed età e latitudine ed è stata un’esperienza unica, ma quando le domande sono così grandi non ci sono risposte univoche, e l’impressione generale è quella di un paese frammentato, forse anche confuso. Alcuni ritengono che quella che viviamo sia una fase passeggera e che l’America tornerà grande, molti pensano che niente sarà più come prima e ci si dovrà adattare ad un modello di vita più sobrio, altri sono semplicemente delusi.
Il fondamentalismo religioso protestante è molto forte e condiziona anche le scelte politiche, ma quello che è ancora più forte è l’individualismo e la convinzione che ognuno deve lottare prima di tutto da solo per superare le difficoltà. C’è un’avversione atavica per tutto ciò che è intervento pubblico, in particolare nell’economia, e non è una posizione solo dei conservatori. Ho sentito progressisti scandalizzati dal fatto che i grandi costruttori di auto sono stati salvati dallo stato, come le grandi banche: dovevano fallire, perché inefficienti, anche se questo poteva comportare la perdita di altri posti di lavoro. Qui non ci sono ammortizzatori sociali, gli impatti di un’economia che non funziona sono immediati nella busta paga di chi lavora, o nel fatto che la busta paga, da un giorno all’altro, si può perdere, anche nel settore pubblico. E quando questo succede si parte, si abbandona il posto in cui si vive e si va a cercare un’occasione migliore da qualche altra parte. In queste comportamenti, per noi ancora estremi, c’è tutta la vitalità e la capacità di reagire alle difficoltà di questa gente. Basterà?
Dal punto di vista personale il viaggio è stata una grande opportunità, è arrivato in un momento in cui il bisogno di riprendere entusiasmo era forte e l’America, in questo senso, è un ricostituente molto efficace.
E come si dice alla fine degli spettacoli o nella prefazione dei libri, tutto questo non sarebbe stato possibile senza l’aiuto e la partecipazione di alcune persone.
Anzitutto Marco e Pierpaolo, che hanno aiutato in modo decisivo a preparare la parte “tecnologica” del viaggio.
Poi tutti quelli che hanno animato i commenti del blog, e che lo hanno reso divertente e vivo per tutto questo tempo.
Ancora, quelli che pur non intervenendo direttamente lo hanno fatto con i messaggi di posta elettronica, grazie.
Infine, le tante persone incontrate lungo la strada che mi hanno aiutato senza conoscermi: Joe Nowak, i Simon, Mike Parks, i Mathis, Robertone, Jonathan, Eleanor, Isabelle & Oscar e quei ciclisti, che non ho mai citato, che mi hanno offerto una doccia e un letto per dormire, non accettati solo per ragioni di distanza. Non sono molti i pedalatori americani della East Coast, ma hanno un cuore grande, un grazie anche a loro.
In realtà sono ancora in buona forma, certamente migliore di quella del primo mese, ma il proseguimento verso Miami e Key West comporterebbe 600 km di superstrade piatte e trafficate, in una zona di nessun interesse per me, e probabilmente con un clima poco simpatico. Diciamo qualcosa di simile al pedalare in piena estate per una settimana sulla A14. Non avrebbe senso, per cui finisce qui, dopo 3.370 chilometri, 59 giorni di viaggio, 46 in bicicletta. Ma finisce qui anche perché c’è un limite alla capacità di immagazzinare sensazioni, emozioni, volti, discorsi; dopo un certo tempo l’esigenza è quella di elaborare e raccontare più che continuare ad accumulare, e quel tempo è arrivato.
Quando il viaggio è iniziato avevo la grande curiosità di parlare con la gente per capire come è percepita qui la crisi, che futuro vedono e come sta cambiando il paese dove si decidono i destini di buona parte del mondo. Ho parlato con decine di persone, di tutte le condizioni sociali ed età e latitudine ed è stata un’esperienza unica, ma quando le domande sono così grandi non ci sono risposte univoche, e l’impressione generale è quella di un paese frammentato, forse anche confuso. Alcuni ritengono che quella che viviamo sia una fase passeggera e che l’America tornerà grande, molti pensano che niente sarà più come prima e ci si dovrà adattare ad un modello di vita più sobrio, altri sono semplicemente delusi.
Il fondamentalismo religioso protestante è molto forte e condiziona anche le scelte politiche, ma quello che è ancora più forte è l’individualismo e la convinzione che ognuno deve lottare prima di tutto da solo per superare le difficoltà. C’è un’avversione atavica per tutto ciò che è intervento pubblico, in particolare nell’economia, e non è una posizione solo dei conservatori. Ho sentito progressisti scandalizzati dal fatto che i grandi costruttori di auto sono stati salvati dallo stato, come le grandi banche: dovevano fallire, perché inefficienti, anche se questo poteva comportare la perdita di altri posti di lavoro. Qui non ci sono ammortizzatori sociali, gli impatti di un’economia che non funziona sono immediati nella busta paga di chi lavora, o nel fatto che la busta paga, da un giorno all’altro, si può perdere, anche nel settore pubblico. E quando questo succede si parte, si abbandona il posto in cui si vive e si va a cercare un’occasione migliore da qualche altra parte. In queste comportamenti, per noi ancora estremi, c’è tutta la vitalità e la capacità di reagire alle difficoltà di questa gente. Basterà?
Dal punto di vista personale il viaggio è stata una grande opportunità, è arrivato in un momento in cui il bisogno di riprendere entusiasmo era forte e l’America, in questo senso, è un ricostituente molto efficace.
E come si dice alla fine degli spettacoli o nella prefazione dei libri, tutto questo non sarebbe stato possibile senza l’aiuto e la partecipazione di alcune persone.
Anzitutto Marco e Pierpaolo, che hanno aiutato in modo decisivo a preparare la parte “tecnologica” del viaggio.
Poi tutti quelli che hanno animato i commenti del blog, e che lo hanno reso divertente e vivo per tutto questo tempo.
Ancora, quelli che pur non intervenendo direttamente lo hanno fatto con i messaggi di posta elettronica, grazie.
Infine, le tante persone incontrate lungo la strada che mi hanno aiutato senza conoscermi: Joe Nowak, i Simon, Mike Parks, i Mathis, Robertone, Jonathan, Eleanor, Isabelle & Oscar e quei ciclisti, che non ho mai citato, che mi hanno offerto una doccia e un letto per dormire, non accettati solo per ragioni di distanza. Non sono molti i pedalatori americani della East Coast, ma hanno un cuore grande, un grazie anche a loro.