domenica 6 settembre 2009

Titoli di coda



Qualcuno ha scritto “quando la tua faccia comincia ad assomigliare alla foto del passaporto è ora che torni a casa” o, come si direbbe in Romagna, “è ora che ti riduci a casa” e la mia faccia qualche problema comincia ad averlo.
In realtà sono ancora in buona forma, certamente migliore di quella del primo mese, ma il proseguimento verso Miami e Key West comporterebbe 600 km di superstrade piatte e trafficate, in una zona di nessun interesse per me, e probabilmente con un clima poco simpatico. Diciamo qualcosa di simile al pedalare in piena estate per una settimana sulla A14. Non avrebbe senso, per cui finisce qui, dopo 3.370 chilometri, 59 giorni di viaggio, 46 in bicicletta. Ma finisce qui anche perché c’è un limite alla capacità di immagazzinare sensazioni, emozioni, volti, discorsi; dopo un certo tempo l’esigenza è quella di elaborare e raccontare più che continuare ad accumulare, e quel tempo è arrivato.
Quando il viaggio è iniziato avevo la grande curiosità di parlare con la gente per capire come è percepita qui la crisi, che futuro vedono e come sta cambiando il paese dove si decidono i destini di buona parte del mondo. Ho parlato con decine di persone, di tutte le condizioni sociali ed età e latitudine ed è stata un’esperienza unica, ma quando le domande sono così grandi non ci sono risposte univoche, e l’impressione generale è quella di un paese frammentato, forse anche confuso. Alcuni ritengono che quella che viviamo sia una fase passeggera e che l’America tornerà grande, molti pensano che niente sarà più come prima e ci si dovrà adattare ad un modello di vita più sobrio, altri sono semplicemente delusi.
Il fondamentalismo religioso protestante è molto forte e condiziona anche le scelte politiche, ma quello che è ancora più forte è l’individualismo e la convinzione che ognuno deve lottare prima di tutto da solo per superare le difficoltà. C’è un’avversione atavica per tutto ciò che è intervento pubblico, in particolare nell’economia, e non è una posizione solo dei conservatori. Ho sentito progressisti scandalizzati dal fatto che i grandi costruttori di auto sono stati salvati dallo stato, come le grandi banche: dovevano fallire, perché inefficienti, anche se questo poteva comportare la perdita di altri posti di lavoro. Qui non ci sono ammortizzatori sociali, gli impatti di un’economia che non funziona sono immediati nella busta paga di chi lavora, o nel fatto che la busta paga, da un giorno all’altro, si può perdere, anche nel settore pubblico. E quando questo succede si parte, si abbandona il posto in cui si vive e si va a cercare un’occasione migliore da qualche altra parte. In queste comportamenti, per noi ancora estremi, c’è tutta la vitalità e la capacità di reagire alle difficoltà di questa gente. Basterà?
Dal punto di vista personale il viaggio è stata una grande opportunità, è arrivato in un momento in cui il bisogno di riprendere entusiasmo era forte e l’America, in questo senso, è un ricostituente molto efficace.

E come si dice alla fine degli spettacoli o nella prefazione dei libri, tutto questo non sarebbe stato possibile senza l’aiuto e la partecipazione di alcune persone.
Anzitutto Marco e Pierpaolo, che hanno aiutato in modo decisivo a preparare la parte “tecnologica” del viaggio.
Poi tutti quelli che hanno animato i commenti del blog, e che lo hanno reso divertente e vivo per tutto questo tempo.
Ancora, quelli che pur non intervenendo direttamente lo hanno fatto con i messaggi di posta elettronica, grazie.
Infine, le tante persone incontrate lungo la strada che mi hanno aiutato senza conoscermi: Joe Nowak, i Simon, Mike Parks, i Mathis, Robertone, Jonathan, Eleanor, Isabelle & Oscar e quei ciclisti, che non ho mai citato, che mi hanno offerto una doccia e un letto per dormire, non accettati solo per ragioni di distanza. Non sono molti i pedalatori americani della East Coast, ma hanno un cuore grande, un grazie anche a loro.

sabato 5 settembre 2009

4 settembre - Cinque cose





Cinque cose che ho detestato dell’America

Le spiagge private e inaccessibili della penisola di Delmarva, e l’idea che si possa privatizzare tutto.

La penisola di Delmarva, piatta, senza storia e attraversata da autostrade larghissime e inutili.

Il marketing religioso negli stati della “bible belt”.

La mancanza di cultura della bici e l’idea persistente che la strada, i negozi, le città sono fatte per le auto.

Il rispetto assoluto delle regole, anche quando vanno contro il buon senso.


Cinque cose che ho amato dell’America

Bagni pubblici e docce. Non è elegante iniziare da qui, ma perché non dire che in tutti i locali pubblici e nelle zone turistiche i bagni ci sono sempre e sono puliti, e che in sessanta giorni ho fatto sessanta docce dosate alla perfezione.

Il Beef Jerky, carne essiccata di manzo, in comode confezioni richiudibili, gustoso concentrato di proteine. Il più significativo contributo americano alla cucina internazionale, ne ho mangiato a quintali.

Il “refill”. In tutti i ristoranti, diners e chioschi da prima colazione il caffè o il the si paga una volta, ma la tazza viene sempre riempita a richiesta. Una bella consuetudine soprattutto d’estate, quando l’arsura preme.

I ferrovieri della linea New York-Maplewood, che all’arrivo in stazione ogni sera ti augurano la buona notte e ti fanno pensare che sulla Bologna-Ancona il servizio potrebbe essere migliorato.

La disponibilità della gente. Un uomo solo in bicicletta qui non è mai solo.

venerdì 4 settembre 2009

2, 3 settembre - Jacksonville, Florida




Dopo tutti gli avvertimenti sul caldo e l’afa di Georgia e Florida, non mi aspettavo proprio pioggia e temperature basse. Eppure sono tre giorni che non si vede il sole, il pomeriggio e la sera piove sempre e ieri mattina ho pedalato per cinque ore sotto l’acqua battente. Pur essendo su una superstrada, in alcune zone dove il drenaggio non ha funzionato l’acqua arrivava quasi al mozzo delle ruote e pedalare è stato come fare acquabike; a sera ho visto dai telegiornali locali che le inondazioni hanno colpito esattamente la zona che ho attraversato. Lungo la strada mi sono fermato al classico negozio di benzinaio per prendere un caffè caldo e riscaldarmi e ne ho approfittato per fare due chiacchiere col gestore, come ad un rifugio alpino.
Ho passato il confine con la Florida, è l’ultimo. Se ho contato bene, questo è il tredicesimo stato che attraverso: N.Y. State, Vermont, Massachusetts, Connecticut, New Jersey, Delaware, Maryland, Washington D.C.,Virginia, North Carolina, South Carolina, Georgia.
L’itinerario che ho coperto oggi invece è in gran parte sulla costa, in una zona di grande bellezza naturalistica: Fernandina Beach, Amelia Island, Talbot Island: qui la foresta, che ha un sottobosco acquitrinoso e fittissimo, si mescola alle dune di sabbia prima di arrivare al mare. La varietà di flora e fauna è ricchissima, è una zona di nidificazione di trampolieri e rapaci, ma l’animale simbolo è il lamantino, quella specie di tricheco senza zanne che pascola canali e fiumi delle zone paludose e che è a rischio di estinzione. Parchi nazionali e zone protette si susseguono per molti chilometri prima di vedere i segni di civilizzazione di Jacksonville. Per arrivarci, si prende un ferry e si attraversa il Saint Johns River, che la solita Lonely Planet, anzi l’ultimo brandello che mi è rimasto, definisce l’unico fiume al mondo insieme al Nilo che scorre da sud a nord.
A Jacksonville sono ospite per qualche giorno di Oscar e Isabelle, col figlio Gabriel, amici di Bob Mathis di Washington. E’ stato lui, il grande Bob, a contattarli e avvertirli del mio arrivo. Abitano molto fuori dalla città, ma sono a 200 metri dall’oceano, ad Atlantic Beach, e ora che mi avvicino al finale è un gran piacere ritrovare il mare, che avevo lasciato più di un mese fa in Maryland, e fare un pò di ozio balneare.

mercoledì 2 settembre 2009

1 settembre - La terza bottiglia di plastica





Grande incontro stamattina a colazione al motel, un altro ciclista che fa la East Coast come me, anche se da sud a nord, e non è un americano è un francese: Marc Delval.
Dire che sta facendo la costa est è un po’ riduttivo, in realtà sta facendo il giro del mondo, che prevede di completare nel 2015, ma lo fa a tappe di qualche mese, al termine delle quali rientra in Francia per ricaricare le batterie e preparare il successivo pezzo. Ora sta facendo la Key West – Boston, più o meno la distanza e il percorso che sto facendo io, ma questa primavera ha pedalato in tutte le isole dei Caraibi: Cuba, Santo Domingo, Bahamas, Jamaica, per 3.000 km. La tappa successiva, nel 2010 sarà l’Europa, della quale farà una sorta di circumnavigazione partendo dalla Scandinavia, da lì discesa a sud: Francia, Spagna, Italia, Grecia Turchia, e ritorno a nord attraverso l’est: Russia, Polonia e Paesi Baltici; per questa tappa prevede di stare via un anno. Sul portapacchi posteriore ha un bauletto rigido che contiene un raccoglitore con le foto e i percorsi che ha fatto in tutto il mondo, un po’ come il press-book degli attori, e poi un altro registro, tipo quello degli alberghi di lusso, dove le persone che lo incontrano scrivono due righe a ricordo.
Con me è generoso di cartine e di consigli sui posti in cui vale la pena fermarsi dopo Savannah.
Quando si incontrano sulla strada personaggi come questi, io ho sempre un paio di curiosità: una è cosa fanno nella vita, o cosa hanno fatto per poterselo permettere? Ma con Marc è impossibile approfondire l’argomento, parla solo francese, di inglese non sa una parola, e anche questo è un bel mistero: come si fa a girare il mondo così?
L’altra cosa che mi chiedo è che tipo di ciclista è, nel senso che il grande ciclista-viaggiatore confina pericolosamente con il ciclista-vagabondo/accattone. A volte non è facile distinguerli, nel senso che ci sono in giro per il mondo personaggi che non hanno una meta precisa, sono in viaggio da anni e semplicemente vivono così, e le loro ragioni non te le vengono a dire, anzi di solito sono poco avvicinabili. Ma ci sono anche ciclisti-tecnici come Marc, anch’essi in giro per lungo tempo, però secondo un piano preciso che prevede un ritorno prima o poi. Come distinguerli? La differenza è sottile, ma basta guardare alle bottiglie in plastica che si portano dietro: tre o quattro bottiglie, che contengono semplice acqua sono il segno che il punto di non ritorno è stato superato: quello è il ciclista-vagabondo. Il ciclista viaggiatore invece non ne ha più di due e dentro c’è gatorade o acqua con i sali. E le borse laterali sono di qualche marca tedesca molto costosa, traspiranti, impermeabili, inaffondabili, e spesso non funzionano. Il ciclista vagabondo invece ha borse in plastica da supermercato, in quantità, e quelle sono veramente impermeabili.
Io e Marc abbiamo due sole bottiglie in plastica, ma occhio, il confine è vicino.

martedì 1 settembre 2009

30, 31 agosto - Savannah






La colazione che prepara Eleanore la mattina della partenza è un pranzo di nozze. C’è di tutto, anche un piatto di polenta che qui si mangia con il formaggio e che, in piena estate e alle 7 della mattina fa uno strano effetto, ma è del tutto nelle consuetudini locali, si chiama cheese grits.
Mi prendo un paio di giorni per visitare Savannah, Georgia. E’ una delle più celebrate città d’America per la bellezza dei suoi palazzi e la sua storia e tutti mi hanno consigliato di farlo. La Lonely Planet la definisce una città sonnolenta e un po’ viziosa, "come una bella donna col viso sporco”, ma di grande fascino per la presenza di splendide case vittoriane, seminascoste dalle grandi querce sempreverdi americane. Questi alberi sono ricoperti da una “barba” di muschio pendente, la Tillandsia, che in realtà è una pianta con radici aeree, e che dà un aspetto vagamente gotico ai quartieri storici della città, un perfetto scenario per un film di Tim Burton.
Ed effettivamente Savannah ha avuto molto a che fare con il cinema; nel tour guidato che ho seguito oggi hanno citato almeno sei o sette film girati qui, tra cui “La signora in rosso”, ma quello che tutti ricordano è “Forrest Gump”, con la scena della scatola di cioccolatini sulla panchina della piazza. Ho fotografato la piazza in questione, Chippewa Square, che è una delle ventuno ancora esistenti in città e la famosa panchina. Ho anche pensato al fatto che a Washington avevo ripreso il Mall, teatro di un’altra scena famosa di questo film e che in fondo anche la traversata dell’America del podista Forrest Gump assomiglia un po’ al mio viaggio; ci sono delle strane analogie tra le due cose, ma per adesso non voglio approfondirle.
Detto questo, e riconosciuta la bellezza di Savannah, bisogna anche dire che l’America è un paese giovane e in continua trasformazione e per un americano l’impatto di una città come questa, con un centro storico di 150 anni pressoché integro, con i vecchi magazzini del cotone restaurati, i viali alberati e le piazze, è quasi sconvolgente, mentre un europeo, abituato da sempre a vivere in mezzo alla storia, potrebbe limitarsi a dire: beh, niente male questa Savannah.