martedì 20 luglio 2010

Flashback – 14 luglio: finisce qui



















Oggi doveva essere il giorno del passaggio della frontiera col Kirgyzstan e partiamo molto presto per raggiungerla, ma a 500 metri dalla sbarra, quando già si intravedono le due casermette kirghisa e kazaka, un cane si piazza in mezzo alla strada, a difesa del gregge vicino e abbaia minaccioso. E’ grosso e non è disposto a muoversi da lì, le tecniche sperimentate finora non sembrano adeguate. Piero si ferma, raccoglie un paio di sassi e se li mette in tasca, io faccio altrettanto. Decidiamo di passare a piedi lentamente, aggirandolo a breve distanza. La cosa funziona e, fatta una trentina di metri, risaliamo sulle bici. Io metto le mani in tasca, tolgo quelli che credo due sassi e li getto di lato, ma il movimento mi sbilancia, il manubrio della bici gira su sé stesso e io volo in avanti, l’impatto è sulle braccia, mi rendo conto in una frazione di secondo di essermi rotto il polso, e che il mio viaggio è finito; dopo un ulteriore secondo penso anche che mi dispiace per Piero, che questo giro lo aveva progettato e si ritrova anche lui a chiuderlo dieci giorni prima.
Con il braccio penzoloni e il polso che si gonfia a vista d’occhio riprendo a pedalare fino alla sbarra; dalla casermetta escono un paio di soldati ai quali faccio vedere il braccio chiedendogli una stecca per bloccarlo, una fascia per tenerlo al collo: ”niet”, una telefonata per il soccorso: “niet”, non è un problema loro, sono militari. Poi uno dei due ridendo mi spiega a gesti cosa mi succederà: un bicchiere di vodka come anestesia e un pestone al polso per raddrizzarlo, ma sono sbruffonate da soldato, (almeno spero). Intanto io non mi reggo più in piedi, mi gira la testa e mi sdraio per terra, e questo diventa un problema anche per loro, non possono avere dei vagabondi che stazionano lì intorno. Dalla casermetta esce un tipo in borghese, probabilmente il loro capo, con una bella faccia da padre di famiglia, il primo volto umano che vedo. Mi chiede il passaporto, lo guarda attentamente e dice: “Diega?” (in russo la o si pronuncia a), “Sì, Diego”, lui scrolla la testa, mi guarda e fa: “Ah! Diega, Diega…dobrosno krakojev visnajo shutski Diega?”. Non ho capito una parola di quello che ha detto, ma il senso l’ho capito perfettamente: “Diego, Diego, ma come hai fatto a cacciarti in questo guaio?”. A quel punto a me parte una sgrigna che non riesco a fermare, un po’ perché è la prima volta che mi chiamano Diega, un po’ perché quello che dice in russo è esattamente quello che avrebbe detto anche mia mamma in italiano. Poi il comandante dà disposizione di chiamare l’ambulanza, la situazione si sblocca e a questo punto si tratta solo di aspettare.
Mentre sono lì sdraiato mi guardo in tasca e quello che tiro fuori è un sasso, - ma non li avevo buttati via i due sassi? -, poi capisco, nella stessa tasca tenevo anche l’osso portafortuna regalatomi da Zhanna, quindi quelli che ho buttato sono stati un sasso e il portafortuna. La prima cosa che è successa subito dopo è stata la caduta, buffo.
E’ vero che sono un po’ nei guai, in questa caserma di una frontiera chiusa, in una valle di alta montagna a 250 chilometri dalla prima vera città, circondato da gente non troppo amichevole. Tra un pò comincerà anche la lunga e penosa liturgia di attese, ospedali, visite, operazioni, scartoffie, e il rientro. Però ora io mi sento stranamente bene qui, sdraiato per terra, è una posizione che mi è sempre piaciuta, mi dà un gran senso di pace. E poi da qui vedo il cielo kazako e le facce stranite dei militari che mi guardano dall'alto, e penso che è un peccato non potergli fare una foto, sarebbe stata la più bella del viaggio.

lunedì 19 luglio 2010

15 luglio - ritorno a Issik





Ieri due disastri hanno cambiato completamente il nostro piano di viaggio. Di uno parlerò nel prossimo post, l’altro è la notizia che la frontiera di Karkara è chiusa per problemi di sicurezza in Kyrgyzstan e questo significa che non potremo chiudere l’anello a sud ritornando a Bishkek attraverso il Kyrgyzstan, ma soprattutto significa che ritorneremo ad Almaty sulla stessa strada su cui abbiamo pedalato all’andata. Questa volta però la percorriamo in taxi, anche per ragioni di urgenza.
Ritorniamo quindi sulla Via della Seta a rivedere, passando veloci, alcuni paesi e villaggi che all’andata ci avevano colpito molto per la varietà umana che li abita.
Issik è il prototipo di questi paesi: un posto che non ha niente di particolare, ma dove la presenza e la mescolanza delle etnie è straordinaria. Mongoli, cinesi, azeri, kirghisi, caucasici, ma anche facce balcaniche: greci, come la barista che non ha voluto essere pagata per la colazione e ci ha salutato con le lacrime agli occhi – chissà perché.
In questo affascinante minestrone umano spiccano i russi. Carnagione e occhi chiari, alti, biondi, sembrano del tutto fuori posto qui, circondati da tarchiati lottatori turco-mongoli o da minute cinesine. Si aggirano per i bazar con l’aria di turisti scandinavi dispersi, vittima di qualche tour-operator disonesto che li ha abbandonati. Ma naturalmente non sono qui per caso, sono i figli dei figli dei russi spediti qui ai tempi del soviet per spezzare la compattezza etnica di territori troppo lontani da Mosca per essere controllati adeguatamente.
In Kazakhstan però l’integrazione funziona e Issik, col suo pacifico mix etnico-cultural-religioso sembra l’ombelico del mondo, il centro di gravità permanente, una canzone di Battiato.

13 luglio - vitto e alloggio




Siamo stati alloggiati nelle situazioni più diverse: hotel tradizionali, appartamenti in affitto (ad Almaty), yurte e case singole, ospiti di famiglie. Di queste, solo le prime due hanno un comfort simile a quello europeo. Nelle tradizionali case kazake invece, all’interno non c’è l’acqua corrente e il bagno. Quest’ultimo è sostituito quasi ovunque dalla classica “buca”, attorno alla quale si appoggia una baracchetta in legno di un metro quadrato. Non è un dramma, ma richiede qualche dote di equilibrismo e contorsionismo che si sviluppa solo col tempo. La mancanza della doccia invece, soprattutto per noi ciclisti, è più grave; oggi ad esempio siamo al settimo giorno senza, e la cosa un po’ si sente, anche se il caldo molto secco aiuta.

Quando ho iniziato il viaggio ero reduce da otto mesi di lezioni di sala e ricevimento e avevo bisogno di recuperare un po’ di animalità, ma il rischio qui è di passare dall’altra parte e che la cosa piaccia. Il capello, ad esempio, cotonato dalla polvere della strada e ormai lungo, assomiglia sempre più, per fare un esempio, a quello di un Toto Cutugno; forse è per questo che il mantra “italiano-totocutugno” continua inarrestabile non appena ci vedono: città, villaggi, campagne, gente del popolo o benestanti, all’est o all’ovest del paese, il primo saluto è sempre quello. Probabilmente è iniziato un processo di identificazione, potrei dirgli che io sono Diego Cutugno, il fratello malriuscito di Toto, avrei un grande ascendente sulla popolazione.

Sul cibo le cose sono più semplici: ci sono 4 o 5 piatti che si trovano un po’ dappertutto e che sono più che accettabili: i pilmini, la risposta orientale al cappelletto e di cui si è già detto, gli shashlik, spiedini di carne di montone, il plof, che nonostante il nome è un piatto abbastanza riuscito di riso, peperoni e carne di manzo e il lagman, uno strano piatto di spaghetti fatti a mano con sopra carne e verdure saltate. La carne di pecora e montone è alla base di quasi tutti i piatti e al ritorno penso che dovremo fare una cura omeopatica a base di castrato per rientrare nella normalità. La carne di maiale non c’è, (so di darti un dolore, Remo), e questa è un’impronta della religiosità musulmana di queste parti, per quanto blanda.

Naturalmente la regina della tavola è la capra, e l’abilità con cui il commensale kazako ci lavora sopra è sbalorditiva: dopo avere addentato, succhiato, aspirato e rumoreggiato tutto il possibile, quello che resta del pezzo di carne con l’osso è appunto un osso, ma talmente levigato e perfetto da sembrare il semilavorato di un tornitore, o una scultura di arte moderna.

sabato 17 luglio 2010

11 luglio - Narinkol




Partenza da Kegen alla mattina di buon’ora perché questa sarà la tappa più lunga, 96 km, e già all’uscita del paese si presentano le prime distese di verde, un campo da golf lungo 30 km, mandriani che lo attraversano al galoppo, cavalli in libertà.

Poi la steppa cambia, le distese di erba più alta si alternano a strisce lunghissime di colore giallo, porpora, azzurro, c’è solo il rumore del vento e il gracchiare dei corvi, il traffico è quasi inesistente: è una delle strade più belle sulle quali abbiamo mai pedalato. Superato un piccolo passo, onde di colline che all’infinito diventano montagne, e che poi diventano ghiacciai. Sulla nostra destra riconosciamo la piramide del Khan Tengri, l’unico 7000 del Kazakistan e la ragione principale di questa deviazione che ci porta al paese di Narinkol. Qui la strada finisce e oltre c’è soltanto la Cina, separata da un confine esile di fil spinati.

A Narinkol ci aspetta la famiglia dei parenti di Carmine, uno degli incontri di Almaty, che li ha contattati per tempo per preannunciare il nostro arrivo,

E’ una casa povera quella che ci accoglie, ma come sempre succede, dimessa all’esterno, calda e accogliente all’interno. In famiglia c’è Beri, la moglie Alma e la piccola Zhanna. Hanno preparato per noi una tavola coloratissima: the, frutta secca, frutta fresca, formaggi, burro, salame, biscotti e dolcetti.

Naturalmente, la nostra immediata preoccupazione è verificare la presenza di teste di capra, ma dopo una rapida ispezione in cucina, scoperchiate un paio di pentole, ci sembra tutto tranquillo.

Lo spettacolo della serata è Beri, un traccagno scuro con un occhio di vetro, ma con una vitalità incredibile; a tavola ci invita a mangiare, “pajeti, pajeti!”, a bere, poi a rimangiare, quindi tira fuori la sorpresa: una bottiglia di “koniac” kazako che considera migliore di quello francese. Noi abbiamo qualche dubbio, ma Beri insiste: “Ciu, ciu!” (un poco, un poco). Poi esce di casa, fuma, sputacchia dappertutto, rientra, ci reinvita a mangiare, poi a bere, e ancora ciu ciu koniac. Ma non è finita, indossa il cappotto tradizionale kazako, tira fuori la sombra che finge di suonare, esce di nuovo, rifuma, risputa e rientra. E’ un carosello impazzito, ma divertente.

Il suo ultimo show è la preparazione della nostra stanza da letto; fa uscire come dal nulla tappeti e trapunte che fanno da materassi, li dispone sul pavimento insieme ad altre trapunte che fanno da lenzuola e coperte.

A fine serata Zhanna ci regala due vertebre d’agnello che ha colorato di rosso: sono due portafortuna.

giovedì 15 luglio 2010

10 luglio - la testa di capra





Lo sapevo che sarebbe successo. Ci hanno offerto la testa di capra, e l’abbiamo dovuta mangiare, Secondo le guide è l’incubo di ogni turista straniero che visiti il Kazakhstan; a volte si riesce a schivarla, ma a volte è impossibile perché è il loro piatto nazionale e tengono moltissimo a fartela assaggiare.

E’ andata così, siamo partiti di buon’ora dal canyon di Sharin, dove abbiamo alloggiato in una yurta lungo la strada (e meno male, perché è stata l’unica possibilità di alloggio in 70 chilometri). Poi abbiamo preso a pedalare in salita. In uno scenario splendido di steppe, montagne brulle e gole, che aveva tutti i toni del verde. Traffico inesistente, umanità inesistente, solo cammelli e cavalli bradi, un silenzio perfetto, una pedalata perfetta, sembrava. Ma poi ha cominciato a piovere forte e la magia si è interrotta, si è fatto molto freddo, (25 gradi meno di ieri), la strada ha preso a salire fino a 1.800 metri, il vento a girarsi contro. In una tappa che sarebbe piaciuta a Remo siamo arrivati completamente zuppi e infreddoliti a Kegen, punto di arrivo previsto. Dopo aver brigato un bel po’ per trovare l’affittacamere ed esserci asciugati alla meglio abbiamo gironzolato per un po’ in paese, solo per renderci conto che quello era il posto più malfamato e sgradevole in cui eravamo capitati in tutto il giro.

Ma come è successo altre volte, la situazione si è ribaltata in un attimo, per strada ci siamo imbattuti in un gruppo di ragazzi che ci ha invitato a casa loro, ad una festa di famiglia, (la solita famiglia allargata di 20 persone) che si stava mettendo a tavola.

Siccome alle viste non c’era niente di pericoloso, anzi: the, formaggi, kumis, verdure, frutta e dolci, abbiamo accettato l’invito di buon grado, tra l’altro tutti i parenti dei ragazzi erano persone molto simpatiche. Insomma la cosa sembrava finita lì, tra chiacchierate, canti e suoni di sombra – lo strumento tradizionale - quando il capofamiglia ha annunciato l’arrivo del Bish-bermak: la testa di capra (notare, dopo i dolciumi).

Bish-bermak significa cinque dita, perché è un piatto che si deve mangiare con le mani. Per me e Piero, ospiti d’onore, ha tagliato le orecchie e ce le ha messe in piatto, passando il resto della testa agli altri e osservandoci orgoglioso. Io e Piero ci siamo guardati sgomenti per qualche lungo secondo, lui col suo orecchio destro e io col sinistro, ma poi ci siamo detti “beh proviamoci, forse non è così male”. Invece è stato anche peggio, la cosa più disgustosa che abbia mai assaggiato. Uno degli invitati, notando i miei sforzi di reprimere il vomito ha sorriso, ma ha fatto finta di niente, con grande signorilità.

9 luglio - la steppa







Oggi è il giorno in cui lasciamo la Via della Seta, per piegare a sud est, verso il confine kirghiso e quello cinese. Partiamo molto presto perché dobbiamo attraversare una delle zone più calde del paese, arrivare al canyon di Sharyn e lì sperare di trovare un alloggio, perché questo percorso è tra i più solitari e difficili di tutto il giro.

Già pochi chilometri dopo Shelik siamo al di fuori di ogni forma di civilizzazione: c’è solo la steppa e una strada dritta come una spada che la taglia in due. Persino i cavalli bradi e qualche raro cavaliere, che erano l’incontro tipico in scenari come questo, qui non ci sono più, come non ci sono case, punti di ristoro o un filo d’ombra per 60 chilometri. Ma lo scenario è imponente: il grande mare d’erba a perdita d’occhio, contenuto solo da una fila di montagne a una distanza incalcolabile. Pedalare qui è difficile e bellissimo: la luce è così abbagliante che gli occhiali da sole non bastano a proteggere e a volte devo fermarmi per riposare gli occhi.

E’ questo mare d’erba che l’Europa ha sempre visto come la più grande minaccia, la benzina che alimentava la cavalleria delle orde turco-mongole, sarmate, unne che distrussero Roma e Atene.

Millecinquecento anni prima degli europei questi popoli inventarono la guerra di corsa, fatta a cavallo, sfruttando questo contesto naturale e la loro leggendaria capacità di cavalcare. Alcuni studi hanno dimostrato che anche le armature dei nostri cavalieri medievali, le cotte, gli elmi, furono inventate qui, dagli antenati dei cavalieri kazaki e riprese solo più tardi dagli europei. Con Alessandro Magno la direzione si inverte e sono gli europei ad invadere l’Asia Centrale, ma il senso non cambia: la Grande Storia ha sempre attraversato queste steppe. Oggi le attraversiamo anche noi.

7 luglio - cani e ciclisti





Stamattina lasciamo Almaty, ma ieri sera, al concerto per Astana, ci sono stati altri incontri. Prima di tutto con Mila e suo marito, una coppia di biker appassionati che avrebbe dovuto ospitarci, ma proprio per via della festa era fuori città, così ci vediamo solo l’ultima sera. Poi, nel mezzo della festa-concerto incontriamo altri due ciclisti, che al confronto noi siamo scolaretti sul triciclo.

Un belga che è partito dalla Tunisia, per fare tutto il Nordafrica, il Medio Oriente, l’Asia Centrale e arrivare in Tailandia. E un americano di New York, in giro da otto mesi nei posti più incredibili, macchina fotografica e videocamera professionali e P.C., un free-lance che ha lavorato anche per il National Geographic. Ha una bici da corsa che non la prenderebbe un rottamaio, senza cambi (un mistero come faccia le salite), non ha tenda, dorme dove capita, fa 150/160 km al giorno. Un animale ciclistico come se ne vedono pochi. Gli chiediamo che carta stradale usa per il Kazakhstan e lui dalla tasca tira fuori un planisfero.

La strada che esce da Almaty verso est è trafficatissima, inquinata, rumorosa, ma soprattutto piena di cani randagi. Ce l’aveva detto il ciclista giapponese che questo tratto di strada era piena di cani impazziti che attaccano i ciclisti, ma noi ci siamo dimenticati di comprare Bishkek ”il bastone che tiene lontani i cani randagi”. Così ci difendiamo con un'altra tecnica. All’avvicinarsi del cane Piero urla a squarciagola “NIET!”, io, più provinciale, grido “Passa via!”. Se la cosa non funziona agitiamo le braccia continuando a urlare, con un effetto teatrale che deve essere notevole visto da fuori. Visto da dentro invece la cosa fa abbastanza paura. Oggi abbiamo subito almeno sei o sette attacchi, ma per fortuna senza danni.

A fine giornata ne vedo uno ai margini della strada, abbastanza grosso, pancia all’aria, travolto da un’auto. Allah il misericordioso ha fatto giustizia.

martedì 13 luglio 2010

6 luglio - Almaty 3



Diversamente dal Kyrgyzstan questo è un paese ricco. Nel centro di Almaty ci sono più SUV che a Milano San Babila, i locali pubblici sono paragonabili a quelli europei, non ci sono accattoni (o li hanno nascosti bene).

La popolazione della città è formata per il 30% da uomini e per il 70% da modelle, non donne, proprio modelle, ragazze tra i 18 e i 30 anni, flessuose, eleganti, bellissime. Quello che non si capisce è dove siano finite le altre, per esempio quelle anziane, quelle obese, quelle malriuscite. Probabilmente ci sono dei campi di lavoro dove tengono le quarantenni, le cinquantenni, ecc, oppure le gasano (il Kazakhstan è al secondo posto al mondo per riserve di gas, tra qualche anno saranno ricchi come gli arabi).

Fatto sta che camminare per la città è molto piacevole e poi ho letto su una rivista che il sogno delle ragazze di qui è sposare un occidentale. Insomma, se ho ancora una minima speranza di trovare moglie e fare contenta mia mamma questa è qui, ora. Naturalmente non andrei su quella fascia di età, vorrei evitare il ridicolo, no, mi basterebbe trovare il campo dove sono detenute le quarantenni e liberarle, e accompagnarmi ad una che sappia di Festival di Sanremo, di Italia degli anni ‘70. Come sarebbe bello passare le serate qui ad Almaty sulla Furmanova, a bere kumis, (latte di cavalla fermentato) e a parlare di Toto Cutugno e Albano, quante cose in comune avremmo! Se poi fosse una persona di cultura potremmo anche spaziare su Peppino di Capri e i Ricchi e Poveri, ma non oso sperare tanto. Con la fortuna che mi ritrovo, scopro il campo delle settantenni con problemi psichiatrici.

5 luglio - Almaty 2






Ad Almaty è facilissimo fare incontri, che rimandano ad altri contatti, che portano ad altri incontri. Stamattina, al ristorante all’aperto sulla Panfilova siamo avvicinati da un kazako che ci sente parlare, è un medico che si è specializzato a Roma e parla ancora perfettamente l’italiano. Grazie a lui risolviamo il mistero di Toto Cutugno.
Ci dice che negli anni ’70, ai tempi dell’Unione Sovietica, ci furono delle spinte verso una maggior apertura culturale all’occidente (musica, cinema, spettacolo, ecc.) che il regime ovviamente non gradiva, ma rispetto alle quali fece qualche concessione. Valutarono che la musica italiana era piacevole, i testi delle canzoni banalotti e non pericolosi, consentirono i collegamenti con il festival di Sanremo e diedero la possibilità di ascoltare quel tipo di musica, che è stata per molto tempo l’unica consentita. In assenza di “concorrenza”, cantanti come Celentano, Albano & Romina Power, i Ricchi e Poveri, diventarono (e sono ancora) popolarissimi, ma la vera star è rimasta lui: Toto Cutugno, che ancora oggi viene ogni anno in tournèe nella capitale e i biglietti sono stravenduti mesi prima.

Avevo il dubbio che dietro l’”italiani-mafia” che sentiamo quasi quotidianamente ci fosse qualcosa di più complesso della presa in giro o dell’insulto. Troppe persone ci chiedono come sta il commissario Cattani, e lo fanno con un interesse vero. L’incontro di oggi con il Console Onorario d’Italia, consigliatoci da Carmine per comunicargli il nostro piano di viaggio, è illuminante in questo senso. Intanto gli chiedo subito che differenza c’è tra un console onorario e uno normale, un dubbio che mi tormentava da tempo, ma la risposta è di tipo burocratico e non sto neanche a riportarla. A seguire gli chiedo invece qual è il meccanismo di trasferimento della ricchezza e del potere nel paese, e qui la risposta è stata molto più interessante. Ci dice che al vertice c’è il Presidente, che governa il business del petrolio. Al di sotto ci sono alcune decine di famiglie, che sono quelle contano, i suoi grandi elettori, ed appartengono alle principali tribù, o orde (i Kazaki sono discendenti degli Unni). Lo scontro che si determina tra queste famiglie per ottenere e distribuire posti di potere e il successivo riequilibrio è l’equivalente occidentale della democrazia rappresentativa. “In un certo senso è come la mafia” dice il console. E’ qui che ho capito, o almeno credo. Nella cultura kazaka è l’appartenenza alla famiglia, alla tribù, che conta, e la lotta per la sua affermazione è fondamentale per la sopravvivenza. Ecco perché i film e telefilm sulla mafia sono così popolari: sono la spettacolarizzazione di un meccanismo sociale che qui conoscono benissimo. Probabilmente quando un kazako ci dice “italiano-mafia” vuole dire “Però, che mafia avete voi, altro che la nostra!”. E’ un attestato di stima, non un insulto.

4 luglio - Almaty 1

















Almaty significa generatrice di mele, madre delle mele, o qualcosa del genere, perché è nella zona montana di Almaty che è stato identificata la zona in cui hanno avuto origine le mele, prima di diffondersi in tutto il pianeta. E la mela di Almaty, è il prodotto che identifica un pò tutto il paese.
Almaty era la capitale del Kazakhstan fino a una decina di anni fa, quando Nazarbajev, il presidentissimo, fece creare dal nulla e in mezzo al deserto, una nuova capitale: Astana. Replicando il modello di Brasilia ha chiamato grandi architetti per progettarla e fatto grandi sforzi per convincere la classe dirigente di Almaty a trasferirsi lì, ma c’è riuscito solo in parte: le temperature nel deserto di Astana sono insostenibili e molti hanno preferito restare qui, pur rinunciando a forti benefici economici.

Il giorno del nostro arrivo in città coincide, guarda caso, con una festa di tre giorni per celebrare il 12° compleanno di Astana, e ha il suo culmine in un mega concerto di musica pop e fuochi artificiali nel centro della città. E’ paradossale che queste celebrazioni vengano tenute nella città che è stata scippata del titolo di capitale, ma è anche un segno di quanto il presidente Nazarbajev tenga a questo progetto. Questo Nazarbajev è un personaggio controverso, ma estremamente popolare nel paese, è forte di un consenso del 90%, che è reale, non forzato o pilotato. Questo non gli impedisce comunque di essere insofferente a quel poco di dissenso che c’è: la censura di questo blog, in quanto parte del network di Google, ne è una prova.
Il primo italiano che incontriamo in città, Carmine, insegnante universitario che vive qui da vent’anni, ci dice “Io lo amo”, spiegandoci che i progressi economici del paese negli ultimi vent’anni e il fatto che in Kazakhstan convivano pacificamente 140 etnie e 20 religioni è un merito tutto del presidente.

Come città Almaty ha un’impronta decisamente sovietica, e quindi casermoni e impianto urbanistico a blocchi ortogonali, ma il fatto di essere completamente immersa in giardini e viali alberati la ingentilisce molto e la rende fresca anche dal punto di vista climatico.
E’ su uno di questi viali che incrociamo un gruppo di biker russi, che ci dà la dritta giusta per alloggiare qui: affittare un appartamento in centro direttamente dai proprietari, che li pubblicizzano per strada con delle targhette bianche. Questa pratica è abusiva, nel senso che i proprietari così evitano di pagare le tasse, ma funziona bene perche consente di affittare l’appartamento anche solo per un giorno e pagare un prezzo più basso di quello degli hotel, che sono carissimi. Così affittiamo per tre giorni un appartamento che più centrale non si può, a 50 metri dalla zona pedonale, e soprattutto in un palazzone di 18 piani in puro stile “cortina di ferro”, con vano scale e ascensori da incubo, ma molto comodo e piacevole da vivere. Una base perfetta per esplorare la città.

giovedì 8 luglio 2010

3 luglio - straniamento



Tappa senza storia quella di oggi, continuiamo a pedalare lungo la valle attraversata dalla steppa, avendo sempre al nostro fianco la catena innevata degli AlaTau. Un incontro interessante a metà giornata: un ciclista giapponese partito da Shangai che sta facendo la Via della Seta, per arrivare fino in Portogallo. Ha un bastone azzurro sul manubrio della bici e ci spiega che gli serve per difendersi dai cani, dice che ci sono molti “mad dogs” nella zona a est di Almaty, zona che noi attraverseremo tra qualche giorno. Buono a sapersi, compreremo ad Almaty un bastone e lo chiameremo Bishkek, “il bastone che serve a scacciare i cani randagi”.

Qualcuno potrebbe chiedersi perché il Kazakhstan. Perché il Kazakhstan quando ci sono le Maldive, le Dolomiti, le Pinarelle a portata di mano?
In realtà il Kazakhstan è’ il luogo in cui essere, il migliore dei luoghi possibili. Che senso ha andare in un posto dove ci sono già mille altre cose, persone, casini, risto-pizzo-disco-bar, quando puoi fare le vacanze in un paese dove, al di fuori di due città importanti e qualche villaggio insignificante, NON C’E’ NIENTE. Ma dove le possibilità di riempire questo niente sono infinite, con incontri indimenticabili con le persone, per esempio. E poi non è nemmeno vero che non ci sia niente: c’è una steppa lunga 8.000 km e larga altrettanto. Per dirne solo una, le possibilità di parcheggio qui sono infinite e l’automobilista metropolitano stressato potrebbe piazzare la macchina ovunque, felice. E poi il senso delle vacanze è perdersi, straniarsi, immergersi in una cosa diversa.
Io ci sono riuscito benissimo. L’altro giorno, entrando nel ristorante di un villaggio ho visto un vecchio guèridon abbandonato, un cameriere che serviva alla francese, un’inserviente che pelava patate e ho pensato: eppure tutto questo mi ricorda qualcosa, forse delle persone? Un edificio? Macchè, niente, il vuoto …

2 luglio - in Kazakhstan



Prime pedalate da casa di Asia e in venti chilometri siamo alla frontiera col Kazakhstan. Il passaggio è meno complicato del previsto, le solite due chiacchiere con le guardie e il solito commento “italiani-mafia” che ci accompagna in ogni passaggio di frontiera fuori europa. Qui però è preceduto da un più originale “italiani-totocutugno”. Per la verità già ieri sera Asia ci aveva detto che l’unico personaggio italiano che conosceva era … (e qui abbiamo tremato): Toto Cutugno. Abbiamo cercato di approfondire e ci ha detto che lo ascoltano in italiano, senza traduzione, il che rende la cosa ancora più incomprensibile.
Il vero mistero della storia d’Italia non è la scomparsa di Majorana, ma la ricomparsa di Toto Cutugno, a 8.000 km di distanza. Comunque, tornando al problema frontiera, stamattina pensavo che alla prossima richiesta di nazionalità dichiarerò direttamente “italiano-mafia”, così ci risparmiamo tempo e battute scontate.
La pedalata è stata molto dura, caldo a 36°, niente ombra, solo steppe bruciate tutto intorno e strada in buona parte in salita con vento contro. Inizio difficile insomma, ma quando alla fine della tappa, al km 74, doveva esserci un hotel che invece non c’era, con il più vicino a 50 km, abbiamo cominciato veramente a preoccuparci, (soprattutto io che ero stremato). Al posto dell’hotel c’era un bar-ristoro e ai gestori abbiamo cominciato a chiedere ospitalità in tutti i modi: dormiamo sui tavoli, ci sdraiamo coi sacchi a pelo, in un corridoio: niente da fare, la donna manager è stata inflessibile. A quel punto però abbiamo realizzato dove eravamo: in un punto di ristoro e di approvvigionamento di acqua lungo la Via della Seta, che è la strada che stiamo facendo, mica la Meldola-Fratta Terme.
Così ci siamo seduti ad un tavolino, con l’idea che in un posto così qualcosa doveva per forza succedere. E infatti, dopo neanche mezz’ora Piero attacca bottone con due guardie private che escono da una camionetta. Hanno il compito di security su un tratto di strada, quella che stiamo percorrendo, dove si costruisce una nuova pipeline per il gas. Il loro tratto di pattugliamento finisce esattamente a 50 km da lì, dove si trova l’albergo più vicino. In un attimo caricano nel retro della jeep le bici e i bagagli e ci ritroviamo in hotel, con la prima doccia dopo 4 giorni, che festa!
Durante il trasferimento la chiacchierata coi poliziotti procede in modo stentato nonostante il russo ormai fluente di Piero, ma è subito chiaro che loro vogliono approfondire due argomenti: in che rapporti siamo con la mafia e Toto Cutugno.

mercoledì 7 luglio 2010

1 luglio - picnic a Koitash rock






La squadra di signore che ci porta in città è organizzata ed efficiente: shopping al bazar, al supermercato, poi al fast-food kirghiso, all’internet cafè (senza grandi risultati). Noi arranchiamo come anatroccoli timorosi di perdere il passo, ma tutto va benissimo e alla fine della mattinata abbiamo un quadro più chiaro della città. Bishkek è più interessante che bella, ma soprattutto è una città che sembra essere pacificata rispetto alla grave crisi che l’ha colpita nelle settimane scorse. Il referendum che ha riformato la costituzione si è svolto due giorni fa regolarmente e senza incidenti, e questa è la cosa più importante per far ripartire il paese.
Nel pomeriggio è Asia che ci porta fuori Bishkek in una escursione nella valle di Koitash, sui monti AlaTau. Saliamo nella macchina dei suoi amici, scassatissima, e nelle frequenti soste vicino al torrente, oltre ad ammirare il panorama rabbocchiamo il radiatore. Pascoli, cime innevate, yurte, cavalli bradi sono parte di un paesaggio quasi alpino. Sulla via del ritorno i gitanti kirghisi della domenica fanno il picnic, impossibile rifiutare un invito, che comprende anche l’assaggio del tè preparato con il samovar.
Domattina lasceremo Bishkek, che ritroveremo, se tutto va bene, solo il penultimo giorno di viaggio, il 26 luglio. Su questa città c’è una storia interessante raccontata da Tiziano Terzani nel suo bellissimo “Buonanotte signor Lenin”, uno dei libri guida di questo viaggio. Il vecchio nome della capitale era Frunze, datogli da Stalin ai tempi del soviet per ricordare un generale, Michail Frunze, che si era particolarmente distinto nella carriera militare e politica. Fu fatto eliminare da Stalin stesso quando la sua popolarità crebbe al punto da fargli ombra. L’eliminazione degli avversari politici da parte di Stalin era seguita poi dalla titolazione di vie o monumenti come “risarcimento” postumo, ma questo Frunze era così importante che si meritò una città. Nel 1991, nell’euforia seguita alla caduta dell’impero sovietico, il parlamento kirghiso, senza consultare la popolazione con referendum o altro, decise di chiamare la città Bishkek, che in turco antico significa “il bastone con cui si rimesta il latte di cavalla”, ma per alcuni anche “il bastone con cui la donna si consola in assenza del marito”, per cui le donne kirghise nei primi tempi pronunciavano il nuovo nome con imbarazzo.
A pensarci bene sarebbe come se da noi, dei leghisti arrabbiati con Roma ladrona decidessero di cambiarle il nome in “Vibratore”. Una cosa impensabile. Almeno credo, ma forse è meglio non dargli delle idee.

30 giugno - a Bishkek

Il nostro contatto a Bishkek è Devendra Pal Singh, nazionalità indiana e responsabile di Servas per il Kyrghizstan. Ci siamo sentiti più volte dall’Italia, è la persona che ci ha tenuti al corrente sulla situazione politico-militare qui. Non può ospitarci perché sta accogliendo amici, sfollati dalla zona di Osh, lo incontreremo domani. Intanto ha mandato un’altra persona all’aeroporto a prenderci, è una ragazza e si chiama Asia (molto simbolico direi), saremo ospiti a casa sua per un paio di giorni.
Il percorso aeroporto-città è tranquillizzante: c’è un solo posto di blocco e la presenza di militari e poliziotti è quasi inesistente, o almeno invisibile.
La casa di Asia è in un sobborgo di Bishkek, quasi campagna. E’ modesta, ma pulita; il gabinetto è un buco nell’orto circondato da un gabbiotto. In casa non c’è l’acqua corrente, ma un sistema ingegnoso di secchi sopperisce bene al problema e comunque nel giardino c’è un rubinetto con l’acqua potabile, acqua degli Alatau, freschissima.
In famiglia ci sono mamma, sorelle, zia, cognato e nipoti di età variabile e numero imprecisato. E’ una famiglia allargata, molto unita e di un’ospitalità quasi imbarazzante date le circostanze. Asia, anche se non è la maggiore di età si muove con la discrezione e l’autorevolezza di una capo famiglia.
A sera finalmente conosciamo Devendra. E’ un pensionato settantenne di grande energia, ex pilota dell’aeronautica militare indiana che da qualche anno è impegnato in progetti sociali per aiutare il paese. Lo fa con disinteresse e grande passione, secondo un costume tipicamente britannico (e poco italiano), che prevede che, una volta chiusa l’esperienza lavorativa, si mettano a disposizione degli altri le proprie conoscenze, relazioni e capacità.
A cena Devendra si è portato cinque signore, tutte appartenenti a Servas Kyrghizstan. Sono donne molto attive, con curriculum internazionali, impegnate nel business o nella istruzione. Danno l’impressione, confermata da quanto leggevo nella guida, che in questo paese le donne contino più degli uomini.
A cena ordinano un piatto chiamato pilmini, che è pari pari un cappelletto asciutto alla panna, solo con il ripieno di carne di pecora, ma per il resto indistinguibile dai nostri. Io trasalgo, ma questo è niente perché una delle ladies comincia a raccontare che quello è un piatto di origine orientale, che la pasta viene tirata a mano da certe vecchie signore… - le sfogline! – dico io. Eh no, non sarà mica come quella storia che la pasta l’hanno inventata i cinesi, l’America l’hanno scoperta i vichinghi, ecc. Per favore, il cappelletto, no. Tra l’altro, la mia idea era di evangelizzare queste terre con l’Artusi in una mano e il mestolo nell’altra, ma a questo punto diventa tutto più difficile.
Comunque, Devendra per domani dà l’incarico alle signore di farci visitare la città e di badare a noi, e noi saremo ubbidienti.

29 giugno - partenza




La prima cosa da dire è che il viaggio doveva essere diverso: una pedalata tutta in Kyrghizstan, paese di grande interesse paesaggistico e umano e considerato senza rischi, almeno fino a febbraio, quando comprammo i biglietti aerei e nessuno poteva prevedere guerre civili o disastri umanitari, cosa che invece è successa tra aprile e giugno. Questo per dire che non era nostra intenzione pedalare in mezzo a crisi umanitarie, ma la compagnia aerea non ci ha cambiato i biglietti e allora abbiamo preso il visto per il Kazakhstan, paese confinante e imparentato strettamente con questo. Il piano quindi è diventato: sbarcare a Bishkek, capitale kirghisa, dopo una breve visita passare il confine e pedalarci il Kazakhstan, vedendo le principali città per dirigerci poi ad est verso il confine con la Cina. A quel punto vedremo come rientrare in Kyrghizstan per il ritorno.
Quest’anno con me c’è Piero, ciclista meldolese di fama internazionale, con cui ho condiviso un paio di viaggi importanti in passato.
Il viaggio aereo è andato bene, con un cambio di volo a Mosca, dove già si avverte un’aria diversa. Nella sala di attesa dell’aeroporto facce rubizze e occhi chiari di russi, zigomi larghi da mongoli, miscugli affascinanti di mille altre razze, forse un assaggio di quello che vedremo nelle prossime settimane. Nell’aria un misto di odori di aglio, di carne, di umanità, che si mescola ai profumi costosi dei duty free. E’ già oriente.

(Nota: il sito blogger.com è oscurato in Kazakhstan, per motivi di censura. I post di Diego vengono così caricati direttamente dal supporto tecnico italiano. Tutti i vostri commenti gli saranno comunque tempestivamente trasmessi!)